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Scritto da nel Letteratura e Filosofia, Numero 1 - 1 Settembre 2006 | 0 commenti

Signori si nasce, e io, modestamente, lo nacqui

Chi non ricorda l'indimenticabile Antonio de Curtis, principe della risata, nobile di nome e di fatto, nel pronunciare una frase che nell'atto stesso dell'enunciazione sembra negare ciò che afferma? Geniale nella costruzione del periodo l'inversione semantica: la signorilità è una dote che necessita come suo composto essenziale di una dose di discrezione e riservatezza, annullata dall'autoreferenzialità dell'assunto.

L'eleganza dei modi, tipica in chi comunemente è ritenuto un Signore, sarebbe di per se sufficiente ad impedire auto-proclamazioni di questo genere, ma Totò, da raffinato linguista ha abituato il suo pubblico a ben altri spettacoli pirotecnici sulle vette del non-sense.

Quanti inconsapevoli Totò si possono incontrare oggi per le strade ed accendendo le televisioni… Signori nel vestire e nell'atteggiarsi, signori nel portafoglio e nell'esclusività dei locali frequentati, signori nel modo di camminare e di accavallare le gambe, signori nelle improbabili mete turistiche, signori in tutto, tranne in ciò che conta, nell'intimo. La scherzosa lezione del principe de Curtis non è stata assimilata.

Talvolta è sufficiente un banale salottino televisivo per osservare personaggi pubblici retrocedere con le offese fino alla terza generazione, o ancora, è divertente notare come uno spaurito gruppo di manifestanti possa far deflagrare l'indiscussa eleganza di una deputata, che nel suo repertorio non trova saluto migliore di quello col medio alzato. Purtroppo, questi indiscutibili segnali di distinzione e nobiltà non rappresentano l'eccezione, ma portano piuttosto l'imprimatur delle vette toccate dall'epoca a cui appartengono. A chiudere il nuovo galateo è mancato soltanto un qualche notabile che parafrasasse il Marchese Onofrio del Grillo, con un illuminatissimo Io sono io, e voi non siete un c…; ma tempo al tempo, e con un po' di fortuna, forse, potremo assistere anche a questo scoppiettante epilogo.

E' interessante, abbandonando il jet-set e l'ironia, e procedendo a ritroso nella scala sociale, osservare come l'arroganza ceda il posto all'ostentazione, uniformandosi al precetto del chi può fa, e chi non può scimmiotta, sine nobilitate, gli usi delle classi superiori.

Fino al XX secolo, in questa imitazione si poteva riscontrare una qualche valenza positiva: i privilegi delle upper class investivano anche ambiti non strettamente economici, e quindi era almeno in linea di principio possibile, che l'imitante, traendo in una certa misura giovamento dagli usi dell'imitato, potesse progredire culturalmente, artisticamente o politicamente.

Col trionfo incondizionato dell'ottica dell'apparire, ancorata saldamente a basi censitarie, si giunge brevemente al paradosso per cui l'imitazione diviene unicamente di natura economica. Si finge d'essere ciò che non si è, contando sul possesso dei beni posizionali, segnale concreto e tangibile di benessere ed appartenenza alla mandria.

La focalizzazione di un interesse meramente quantitativo, tara tipica dell'epoca contemporanea, implica in modo diretto lo svilimento di quella imitatio (non aprioristicamente negativa) divenuta ora un grottesco scimmiottare. Inadeguatezza, concupiscenza ed invidia sono i sentimenti da cui prende le mosse la copia infedele di quanto si vorrebbe essere, o almeno apparire, senza tuttavia poterselo permettere.

Lo sguardo inquieto e penetrante del vecchio Nietzsche aveva, come spesso accade, colto nel segno: l'istinto del gregge è una pulsione umana forte ed accogliente, al contrario della solitudine aristocratica. Il sangue blu non si compra, è il frutto selezionatissimo dei secoli: uve invecchiate nei polverosi barrique della storia.

Si rassegnino gli abbienti contemporanei, come si sono dovuti rassegnare i ricchissimi studenti borghesi di Oxford a veder campeggiare, accanto alle proprie credenziali, la scritta snob, acronimo poco lusinghiero dell'appellativo sine nobilitate.

La “signorilità” è l'ineffabile, o se si preferisce un “je ne sais quoi”[1], un “non sapere” che sfocia in una forma di conoscenza che tuttavia non può essere motivata. Non esistono precetti a cui uniformarsi in grado di garantire la riuscita del proposito: non è data dall'abito, non è connessa al censo, e forse non è interamente legata nemmeno all'atteggiamento, come il Bello in ambito artistico, è forse delimitabile soltanto via negationis.

Audrey Hepburn, purissimo distillato d'eleganza, è stata un'ipostatizzazione vivente di questo concetto, in maniera diversa la medesima predisposizione venne incarnata da Totò; non a caso, uno dei pochi, che poteva concedersi il lusso di scherzarci sopra, lui ch'era nobile di nome e di fatto…


[1] Assunto utilizzato dall'estetica Settecentesca per tentare una definizione del gusto.

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