Il vino e la tv
Vino, vino e ancora vino. Sono ormai lontani gli anni dello scandalo del vino al metanolo (marzo 1986) ed il vino è un tema più che mai attuale, sopratutto per le caratteristiche di primissima fascia dei prodotti italiani. La “password d'ingresso” per questo settore è certamente qualità. La mole d'informazioni che vengono “sparate” al consumatore attraverso il mezzo televisivo è abnorme ed è sufficiente accendere la televisione per imbattersi in una qualsiasi trasmissione di cucina o similari per rendersi conto di come l'argomento sia sulla bocca di tutti, esperti o meno. Consigli per avvicinarsi alle complicate basi per la degustazione (non certo per impararle) e l'abbinamento dei vini sono quindi elargiti mediante la televisione principalmente per fare la più semplice delle operazioni commerciali: vendere. Non c'è solo la televisione poiché anche internet e la carta stampata affollano le nostre orecchie di parole in parte comprensibili.
Non solo qualità ma anche quantità. A testimoniare la portata dell'argomento è il recente balzo in avanti fatto registrare dalle esportazioni in America. L'Italia è, infatti, il primo paese esportatore oltreoceano davanti a due feroci rivali: l'Australia e la Francia. Tra gennaio e giugno di quest'anno le esportazioni di vino made in Italy oltreoceano sono aumentate del 9,1% rispetto ai valori del 2005.
Vino, vino e ancora vino. In Italia il vino e tutto il carrozzone mediatico che segue ha trovato spazi mai immaginati e mai avuti solo quindici anni fa: dalle riviste ai wine bars (che spuntano come funghi ad ogni angolo delle città [1]), dai canali tematici satellitari (RaiSat Gambero Rosso, Alice) ai corsi per avvicinarsi al vino, dai sommelier sino agli strumenti finanziari che hanno come sottostante il prezioso nettare degli dei.
Quale vino si beve in televisione? Si stappano bottiglie mediamente costose. Sicuramente non si degustano e spiegano i vini delle linee base, che sono numerosissimi e altrettanto validi [2]. Quest'attitudine è un grosso errore di valutazione ed il motivo è molto semplice: il consumatore medio non beve solo Sassicaia od Ornellaia. Il cliente poco esperto potrebbe esser tratto in inganno da quest'atteggiamento che è a tutti gli effetti “snob”. Degustare solo etichette d'alto profilo non ha senso e questo non solo perché la maggior parte degli individui non beve e non compra quei vini ma anche perché così facendo si esclude un mondo di etichette valide. Qualche esempio? “Cubìa” di Cusumano, “La Segreta Bianco” di Planeta, “Montefalco Rosso” di Caprai, “Aulente” di San Patrignano, “Südtiroler Gewürztraminer” della linea Classic di Tramin, “Zamò Bianco” di Zamò, “Sangiovese di Romagna” di Cesari: vini mai visti stappare in televisione ma che non sfuggono alla più attenta carta stampata.
Considerando che l'unico vero metodo per giudicare cosa è buono o cattivo, gradevole o meno, come per tutti i piaceri dell'uomo, è il proprio metro personale, il quale assume sfumature giustamente differenti da soggetto a soggetto [3], si può fare un'ulteriore considerazione sulle bottiglie costose. Nella scelta di etichette blasonate che superano un livello medio alto di prezzo (diciamo oltre i 40 euro) entra in gioco un fattore di signaling che non ha nulla a che fare con la qualità: nella maggior parte dei casi l'acquisto è fatto per comunicare/segnalare il proprio status ed è legato – esattamente come lo è concludere un importante affare all'Enoteca Pinchiorri piuttosto che nell'area di sosta di un Autogrill – ad una questione di fascino.
Il consumatore non esperto (che può assumere di volta in volta i connotati del soggetto che spende 200 euro per una bottiglia per far colpo sul cliente o sulla signorina di turno, piuttosto che un semplice appassionato che s'informa su cosa sta comprando) non sa e non capisce la differenza tra una bottiglia da 30-40 euro ed una da 200 euro. Magari la percepisce, ma non la capisce. Superato un certo livello di prezzo, l'acquisto è guidato da altri motivi, i quali possono essere più o meno validi, certamente sono leciti e sacrosanti ma che non sono rilevanti in questa sede.
Non commettiamo quindi l'errore di pensare che il mondo del vino sia quello che si stappa in televisione poiché non è assolutamente così. Fermo restando che non è necessario aprire bottiglie costose per bere bene, gli italiani non bevono quello che si vede in televisione e la maggior parte delle volte non svuotano il proprio portafogli per una bottiglia di Brunello di Montalcino.
[1] Come se bastasse comprare tre vini un po' di moda e due calici per elevarsi al rango di “Wine Bar” e lasciarsi alle spalle la semplice qualifica di “Bar”.
[2] Specie se paragonate al palato di chi li beve (come quello di chi scrive) che non è certamente raffinato come quello di un sommelier.
[3] Ovviamente entro certi limiti. Se si chiama “vino” il prodotto tanto diffuso contenuto in cartone stiamo oltrepassando i limiti, almeno quelli di chi scrive.